Argall

(Argall, 2001)

William T. Vollmann

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Ritratto di Amonute/Pocahontas un anno prima della morte, da una incisione di Simon van de Passe

Il terzo volume del ciclo Sette sogni – un libro di paesaggi nordamericani racconta una storia conosciuta al grande pubblico grazie a diverse riduzioni letterarie, cinematografiche, a fumetti e via dicendo. Ambientato tra i secoli XVI e XVII, racconta la colonizzazione del territorio che oggi è lo stato USA della Virginia; ha come argomento principale le vite della principessa powhatan Amonute (ca. 1595-1617), più nota come Pocahontas, e dell’avventuriero inglese John Smith (1580-1631). Storia conosciuta superficialmente, perché romanzata in numerose versioni di fiction, è per Vollmann l’occasione di raccontare il devastante impatto delle culture native americane con la preponderante forza demografica e tecnologica dei colonizzatori britannici.

L’opera è scritta in un inglese che imita le forme e il vocabolario dell’epoca elisabettiana, pieno di arcaismi e latinismi. La prima parte è incentrata sulla vita di John Smith, un fittavolo nativo del Lincolnshire insoddisfatto della vita di contadino; diventa apprendista commerciante, ma non è soddisfatto, e dopo la morte del padre lascia l’impiego. Dopo avere implorato il suo tutore e il suo signore, lord Willoughby d’Eresby, dei cui figli è amico intimo, di trovargli un’occupazione più movimentata, si ritrova arruolato per combattere nei Paesi Bassi a fianco degli insorti protestanti contro la monarchia spagnola.

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Dương Thu Hương


Nata nel Vietnam del Nord, Dương Thu Hương (1947- ) per frequentare le scuole è costretta a trasferirsi con la nonna nel sud. Nel 1967 si sposa contro la sua volontà con un uomo che non ama; da lui avrà due figli. Viaggia e soggiorna nei paesi comunisti; insieme ad una troupe teatrale si reca al fronte, dove si esibisce per alcuni anni per i soldati. Dopo la riunificazione dei due governi del Vietnam lavora come sceneggiatrice, ma i suoi film sono degli insuccessi. Comincia a scrivere narrativa; il suo primo romanzo, Storia d’amore raccontata prima dell’alba, la fa conoscere in patria e all’estero. Le sue prese di posizioni critiche nei confronti del governo sono frequenti e dure e il risultato è l’espulsione dal partito nel 1989; le viene inoltre negato il diritto di recarsi all’estero.

Nel 1991 passa otto mesi in carcere e le viene ritirato il passaporto. Da allora le difficoltà di pubblicare in Vietnam diventano insuperabili, soprattutto per due motivi: la censura e il monopolio dell’editoria da parte del governo.

Nel 2005 riceve il premio “Grinzane-Cavour”. Le viene consentito di recarsi in Italia per ritirare il premio. Dall’anno successivo, Dương vive in Francia.

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Au zénith

(2009)

Dương Thu Hương

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Ho Chi Minh

Au zénith è il capolavoro della scrittrice vietnamita Dương Thu Hương, naturalizzata francese: un romanzo che ha richiesto oltre dieci anni di lavoro, in cui convergono il suo impegno politico e il suo talento letterario. Il tema principale sono gli ultimi anni di vita di Ho Chi Minh, la sua marginalizzazione all’interno del blocco di potere nordvietnamita, le sue riflessioni sul significato della propria vita.

Nel 1953, il Presidente — come lo chiama l’autrice — si innamora perdutamente, a più di sessant’anni, di Xuân, una giovane donna con la quale mette su famiglia e si stabilisce a Hanoi, non appena la capitale viene liberata. Ma quando il padre della nazione e vuole ufficializzare l’unione, i suo ministri temono che questa relazione privata lo trascini giù dal piedistallo politico sul quale l’ha posto la nazione, e loro con lui, compromettendo la guerra di liberazione.

 Il Presidente cede, credendo di piegarsi alla ragione di Stato. Da quel giorno la sua vita viene stravolta. La sua giovane compagna viene assassinata, i suoi figli mandati da parenti e il potere effettivo gli sfugge di mano: nascondendosi dietro la sua figura, i suoi ex compagni di lotta politica costruiscono un regime le cui fondamenta sono lontane dagli ideali della loro comune giovinezza.

Per dare piena espressione a questo dramma intimo e politico, l’autrice mette in atto una costruzione romanzesca mozzafiato, giustapponendo quattro punti di vista narrativi.

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La pioniera nuda

(Го́лая пионе́рка, 1991)

Mikhail Kononov

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Čulpan Chamatova nella riduzione teatrale di Kirill Serebrennikov

Pubblicato per la prima volta in Germania nel 1991, questo romanzo di Mikhail Kononov (1948-2009) era stato scritto già nel corso degli anni Ottanta ma aveva collezionato diversi rifiuti dell’editoria sovietica, perché racconta con intento dissacratorio episodi della Seconda Guerra mondiale, che ancora nella Russia post-comunista è conosciuta come Grande guerra patriottica, motivo di orgoglio nazionale.

Féerie bellico-erotica in otto capitoli infuocati con una guerra gagliarda e un fiero assedio, con un amore puro e del sesso lurido, con il fragore degli spari psicopropedeutici a bruciapelo del generale Žukov, e con l’apparizione della Santissima Vergine Maria e gli strategici voli notturni DI UNA PICCOLA PIONIERA COMPLETAMENTE NUDA!

Michail Kononov, Nuda! Mucha la piccola pioniera

Durante la Seconda guerra mondiale la quindicenne Marija Mukhina, detta Maša, giovane pioniera dell’URSS, tiene nascosta la propria età per essere assegnata a un’unità di combattimento sul  fronte di Leningrado. Assediata già da due anni, la città ma continua a resistere.  La ragazzina non combatte solo contro gli invasori, ma anche contro gli ufficiali del reparto, che ogni notte cercano soddisfazione nel suo corpo. Maša nutre un giusto risentimento e anche disprezzo per questi uomini che approfittano di lei; l’unico che non le desti ribrezzo è il tenente Sbruev, anche lui comunque incontrollabile nel suo desiderio di sesso.

Quasi ogni notte Maša riceve visite nella sua branda, ma appena può si addormenta e si trasforma nella Gabbianella. Minuscola e nuda, si alza in volo e percorre tutto il fronte di Leningrado per adempiere una missione affidatale dal generale Žukov, per il quale Maša ha una autentica venerazione.

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L’arte francese della guerra

(L’art française de la guerre, 2011)

Alexis Jenni

⸎  — 2


So bene che una metafora organica della società è una metafora fascista; ma i problemi che abbiamo possono essere descritti in maniera fascista. Abbiamo problemi di ordine, di sangue, di suolo, problemi di violenza, problemi di potenza e di uso della forza.

Dopo il premio Goncourt 2006 a un lungo romanzo di guerra (Le benevole di Jonathan Littell), la giuria del maggiore premio letterario francese si ripete nel 2011 con questo romanzo dell’esordiente Alexis Jenni, un viaggio attraverso vent’anni ininterrotti di guerre, dalla resistenza contro il nazismo all’indipendenza dell’Indocina, per finire con l’interminabile battaglia di Algeri: una cronaca romanzata della decolonizzazione.

Punto d’arrivo è la violenza endemica con cui oggi nelle periferie urbane si riduce a un problema di ordine pubblico la questione dei francesi d’origine coloniale, e che per l’autore ha le sue radici nella resistenza alla perdita delle colonie:

Vent’anni, le guerre si succedevano, e ciascuna lavava con un colpo di spugna la precedente, gli assassini di una sparivano nella seguente. Perché ne produceva di assassini, ciascuna guerra, a partire da gente che non avrebbe picchiato il proprio cane, che nemmeno sognava di combattere, ai quasi si consegnava una moltitudine di uomini legati e nudi, li si faceva regnare su greggi di uomini  mutilati dalla colonizzazione, masse di cui neppure si conosceva il numero, della quale era necessario abbattere una parte per salvare il resto, come si fa con le bestie per prevenire l’afta epizootica.

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Ghiaccio Nove

(Cat’s cradle, 1963)

Kurt Vonnegut

ℍ ⸿ — 2

Vonnegut all’università dello Iowa, 1965

Il titolo inglese del romanzo allude al “gioco della matassa”, che in italiano si chiama anche ripiglino; tradizionalmente femminile, a due o più partecipanti, consiste nel formare figure mediante l’intreccio di un lungo filo tenuto teso tra le dita di due mani: il riferimento è all’incessante movimento della linea narrativa che riprende nel corso di tutta la narrazione i medesimi argomenti.

Il protagonista, Jonah, che si dichiara adepto del profeta Bokonon, predicatore di una nuova religione, decide di scrivere un libro dal titolo Il giorno in cui il mondo finì; il suo intento è riportare testimonianze su cosa stessero facendo una serie di persone intervistate, il giorno in cui seppero del lancio dell’atomica su Hiroshima, il 6 agosto 1945.

In modo piuttosto naturale, le sue ricerche partono da uno dei padri della bomba, il defunto premio Nobel Felix Hoenikker; decide di intervistare i suoi tre figli, Franklin, Angela e Newton, e il supervisore del progetto, Asa Breed. Dalle interviste scaturisce anche l’idea di una bizzarra invenzione conseguita da Hoenikker dopo la bomba atomica. Per rispondere alla richieste di un generale di evitare il disagio del fango, che spesso impaccia l’operatività in azione dei marines, Hoenikker inventò un composto chimico che solidifica l’acqua contenuta nel fango: il ghaccio-nove, che eleva la temperatura di fusione a 45,5°. Un effetto collaterale indesiderato è l’immediata propagazione del fenomeno a tutta l’acqua che si trova a contatto con quella solidificata e, per assurdo, all’intera acqua del pianeta.

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Comma 22

(Catch-22 1961)

Joseph Heller

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Fotogramma dal film del 1970 tratto dal romanzo, regia di Mike Nichols, con Orson Welles, Art Garfunkel, Paula Prentiss, Martin Balsam, Anthony Perkins

Pubblicato nel 1961, e divenuto rapidamente uno dei maggiori classici antimilitaristi di tutti i tempi, Comma 22 è basato in parte sull’esperienza autobiografica dell’autore, che nel corso della seconda guerra mondiale combatté sul fronte italiano come pilota di bombardieri nell’aviazione Usa. La stesura del libro ha una storia lunga e travagliata. Joseph Heller (1923-1999) cominciò a scriverlo nel 1953, sull’onda dell’indignazione per il coinvolgimento nella guerra di Corea, e nel clima di caccia alle streghe del maccartismo. Un’altra probabile ispirazione, a detta dell’autore, è la lettura di Il buon soldato Švejk di Jaroslav Hašek (1923), famoso antesignano della letteratura antimilitarista.

L’azione inizia in un ospedale militare dell’isola di Pianosa, nell’arcipelago toscano, che ospita il 256° squadrone aereo dell’esercito Usa. Siamo nel ’44, la parte meridionale dell’Italia è già stata liberata, mentre al nord i residui del fascismo hanno costituito una Repubblica sociale italiana, fiancheggiatrice della Germania nazista. Il capitano John Yossarian (solo una volta, verso il finale, viene rivelato il suo nome di battesimo) si trova ricoverato nell’ospedale da campo per una patologia che si sospetta studiata apposta per ottenere il congedo: si dichiara destabilizzato dal fatto che ci sia una quantità di gente che gli spara addosso, senza tenere conto del fatto che molti di quelli che a suo dire ce l’avrebbero con lui sono gli addetti alla contraerea tedesca che lo bersagliano durante le missioni di bombardamento.

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La pelle

(1949)

Curzio Malaparte

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Un’inquadratura del film “La pelle” (1981) di Liliana Cavani

Il romanzo La pelle nasce dall’esperienza autobiografica dell’ultima parte della Seconda guerra mondiale, quando nell’autunno 1943 l’Italia cambiò fronte, passando dall’Asse alla parte degli Alleati. Malaparte divenne ufficiale di collegamento tra i comandi alleati e l’esercito italiano, che si andava ricostituendo dopo la quasi totale dissoluzione dell’8 settembre.

Il romanzo è composto da dodici capitoli, i primi nove e l’ultimo ambientati a Napoli, gli altri due a Roma, Firenze e nella Pianura Padana a mano a mano che la conquista della penisola procede dopo lo sfondamento della fortificata Linea Gotica.

Il titolo di lavorazione era La peste, ma Albert Camus pubblicò nel 1947 un libro con lo stesso titolo, che riscosse un immediato, vasto successo, e Malaparte preferì cambiare.

L’incipit, piuttosto famoso, chiama immediatamente in causa il morbo della “peste”, che in realtà si rivelerà una questione morale più che sanitaria:

Erano i giorni della “peste” di Napoli. Ogni pomeriggio alle cinque, dopo mezz’ora di punching-ball e una doccia calda nella palestra della P.B.S., Peninsular Base Section, il Colonnello Jack Hamilton ed io scendevamo a piedi verso San Ferdinando, aprendoci il varco a gomitate nella folla che, dall’alba all’ora del coprifuoco, si accalcava tumultuando in via Toledo. Eravamo puliti, lavati, ben nutriti, Jack ed io, in mezzo alla terribile folla napoletana squallida, sporca, affamata, vestita di stracci, che torme di soldati degli eserciti liberatori, composti di tutte le razze della terra, urtavano e ingiuriavano in tutte le lingue e in tutti i dialetti del mondo. L’onore di essere liberato per primo era toccato in sorte, fra tutti i popoli d’Europa, al popolo napoletano.

La “peste” è la corruzione scoppiata a Napoli «il 1 ottobre 1943, il giorno stesso in cui gli eserciti alleati erano entrati come liberatori in quella sciagurata città»; il morbo «da quell’infelice città si sparse a poco a poco per tutta l’Italia e per tutta l’Europa». È evidente che il contagio è stato portato dai liberatori, che però si rifiutano di ammetterlo, e proibiscono di dirlo.

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