L’arte francese della guerra

(L’art française de la guerre, 2011)

Alexis Jenni

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So bene che una metafora organica della società è una metafora fascista; ma i problemi che abbiamo possono essere descritti in maniera fascista. Abbiamo problemi di ordine, di sangue, di suolo, problemi di violenza, problemi di potenza e di uso della forza.

Dopo il premio Goncourt 2006 a un lungo romanzo di guerra (Le benevole di Jonathan Littell), la giuria del maggiore premio letterario francese si ripete nel 2011 con questo romanzo dell’esordiente Alexis Jenni, un viaggio attraverso vent’anni ininterrotti di guerre, dalla resistenza contro il nazismo all’indipendenza dell’Indocina, per finire con l’interminabile battaglia di Algeri: una cronaca romanzata della decolonizzazione.

Punto d’arrivo è la violenza endemica con cui oggi nelle periferie urbane si riduce a un problema di ordine pubblico la questione dei francesi d’origine coloniale, e che per l’autore ha le sue radici nella resistenza alla perdita delle colonie:

Vent’anni, le guerre si succedevano, e ciascuna lavava con un colpo di spugna la precedente, gli assassini di una sparivano nella seguente. Perché ne produceva di assassini, ciascuna guerra, a partire da gente che non avrebbe picchiato il proprio cane, che nemmeno sognava di combattere, ai quasi si consegnava una moltitudine di uomini legati e nudi, li si faceva regnare su greggi di uomini  mutilati dalla colonizzazione, masse di cui neppure si conosceva il numero, della quale era necessario abbattere una parte per salvare il resto, come si fa con le bestie per prevenire l’afta epizootica.

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La letteratura nazista in America

La litératura nazi en América (1996)

Roberto Bolaño

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Roberto Bolaño

L’intero libro ha la forma letteraria di una volume enciclopedico, una rassegna di scrittori di estrema destra di tutta America, dagli Usa fino al Cono Sud. Ogni capitolo, o racconto, è la biografia apocrifa di un autore, naturalmente inventata in toto. Nelle parole di Bolaño, il libro è «un’antologia vagamente enciclopedica della letteratura filonazista prodotta in America dal 1930 al 2010, un contesto culturale che, a differenza dell’Europa, non ha coscienza di cosa significhi cadere nell’eccesso»: quindi le biografie si spingono anche nell’immediato futuro.

Il libro contiene 32 biografie di scrittrici e scrittori, di lunghezza variabile; la più lunga, Ramírez Hoffman, l’infame, è l’unica ad avere la forma narrativa di un racconto vero e proprio. La medesima storia sarà sviluppata con maggiore ampiezza nel romanzo Stella distante (1996), dove il protagonista si chiama però Carlos Wieder.

Bolaño usa la definizione “nazista”, ma spesso le biografie raccontano personaggi vicini all’estrema destra latinoamericana o a un cattolicesimo conservatore molto rigido, doìipico dell’ideologia franchista spagnola. Altre biografie sono invece racconti di squallide astuzie di personaggi marginali nella vita culturale americana.

Gli scrittori di La letteratura nazista in America altro non sono che una metafora del mestiere di scrittore, della letteratura che è un mestiere, a mio modo di vedere, abbastanza miserabile, praticato da gente che è convinta che sia un mestiere magnifico. […] Non so come fanno a non rendersi conto. il mestiere di scrivere è un mestiere popolato da canaglie, e questo lo intuiscono tutti, ma è anche un mestiere popolato da tonti che non si rendono conto della sua fragilità immensa e di come sia effimero. Io posso stare con venti scrittori della mia generazione e tutti possono essere convinti di essere molto bravi e che sopravvivranno; questo è indice di ignoranza, oltre al fatto di essere un atto di enorme superbia, è di una ignoranza bestiale.

Roberto Bolaño, intervista a Cristián Warnken, 1999
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Curzio Malaparte

Curzio Malaparte, pseudonimo di Curt Erich Suckert (1898-1957) ha attraversato tutta la storia del Novecento europeo, come combattente volontario nella Prima guerra mondiale, come reporter di guerra nella Seconda, e come scrittore e giornalista dal 1919 e fino alla morte.

Aderì al fascismo fino dagli esordi, convinto della necessità di rigenerare l’Italia con una “rivoluzione nazionale”, e come giornalista ne rappresentò l’anima più radicale, il cosiddetto “fascismo di sinistra”. Fu tra i promotori della corrente letteraria Strapaese, che si rifaceva a elementi della tradizione contadina, populista.

A causa della sua attitudine critica, viene espulso dal PNF nel 1933, incarcerato e inviato al confino nell’isola di Lipari. In realtà poté godere di condizioni privilegiate, anche grazie all’amicizia con Galeazzo Ciano.

L’intera opera letteraria di Malaparte rimane «a metà tra scandalo e prosa d’arte ma sempre stabilmente all’interno della mitologia fascista»[i]. Definì se stesso “l’Arcitaliano”, intendendo con questa definizione un concentrato dei pregi e dei difetti degli italiani.

Le sue opere più conosciute sono Viva Caporetto! (1921) e quella che definì “trilogia”, cioè Kaputt (1944), La pelle (1949) e l’incompiuto Il ballo al Kremlino (postumo, 1971).

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La pelle

(1949)

Curzio Malaparte

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Un’inquadratura del film “La pelle” (1981) di Liliana Cavani

Il romanzo La pelle nasce dall’esperienza autobiografica dell’ultima parte della Seconda guerra mondiale, quando nell’autunno 1943 l’Italia cambiò fronte, passando dall’Asse alla parte degli Alleati. Malaparte divenne ufficiale di collegamento tra i comandi alleati e l’esercito italiano, che si andava ricostituendo dopo la quasi totale dissoluzione dell’8 settembre.

Il romanzo è composto da dodici capitoli, i primi nove e l’ultimo ambientati a Napoli, gli altri due a Roma, Firenze e nella Pianura Padana a mano a mano che la conquista della penisola procede dopo lo sfondamento della fortificata Linea Gotica.

Il titolo di lavorazione era La peste, ma Albert Camus pubblicò nel 1947 un libro con lo stesso titolo, che riscosse un immediato, vasto successo, e Malaparte preferì cambiare.

L’incipit, piuttosto famoso, chiama immediatamente in causa il morbo della “peste”, che in realtà si rivelerà una questione morale più che sanitaria:

Erano i giorni della “peste” di Napoli. Ogni pomeriggio alle cinque, dopo mezz’ora di punching-ball e una doccia calda nella palestra della P.B.S., Peninsular Base Section, il Colonnello Jack Hamilton ed io scendevamo a piedi verso San Ferdinando, aprendoci il varco a gomitate nella folla che, dall’alba all’ora del coprifuoco, si accalcava tumultuando in via Toledo. Eravamo puliti, lavati, ben nutriti, Jack ed io, in mezzo alla terribile folla napoletana squallida, sporca, affamata, vestita di stracci, che torme di soldati degli eserciti liberatori, composti di tutte le razze della terra, urtavano e ingiuriavano in tutte le lingue e in tutti i dialetti del mondo. L’onore di essere liberato per primo era toccato in sorte, fra tutti i popoli d’Europa, al popolo napoletano.

La “peste” è la corruzione scoppiata a Napoli «il 1 ottobre 1943, il giorno stesso in cui gli eserciti alleati erano entrati come liberatori in quella sciagurata città»; il morbo «da quell’infelice città si sparse a poco a poco per tutta l’Italia e per tutta l’Europa». È evidente che il contagio è stato portato dai liberatori, che però si rifiutano di ammetterlo, e proibiscono di dirlo.

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